Il Mose verrà ultimato nel 2023; il ponte S. Giorgio (ex Morandi) ricostruito in due anni secondo il “modello Genova”. Per un’opera importantissima, invece, non si riesce a concepire un modello Messina e si prende in giro il Sud con il 40% del Recovery Fund.
Lo storico Strabone narra di come il console Lucio Cecilio Metello dopo aver sconfitto Asdrubale nella prima guerra punica, trasferì circa cento elefanti da guerra da Messina a Reggio Calabria unendo le due sponde dello stretto con navi di legno e botti galleggianti. Che ci sia riuscito o meno, riflettere sul fatto che nel 250 a.C. qualcuno abbia attraversato lo stretto camminandoci su e non navigando (o nuotando come qualcuno fece tempo fa) lascia interdetti. Si potrebbe sicuramente affermare che il concetto universale di Romanitas (termine coniato dagli storici per indicare l’identità basata su essere parte di una comunità politica e religiosa con valori comuni) valga, in un ipotetico confronto, molto di più di quello di italianità (partecipazione al patrimonio di cultura e civiltà attribuito all’Italia e soprattutto la coscienza di questa appartenenza). Per alcuni, infatti, l’italianità si ferma a Roma. Eppure, ad un occhio attento, ma soprattutto ad un cervello sveglio, non dovrebbe sfuggire il fatto che nel Mezzogiorno risiedono i veri italiani! Eh sì, perché le tasse per il sostentamento e il potenziamento dell’arte, della cultura, della scuola, della sanità, delle infrastrutture italiane le pagano anche a Sud….però poi vanno a finire a Nord! Chi è, allora, più italiano di noi? Nessuno, anche se, e credo di non sbagliare, il grande principe de Curtis più che italiani ci avrebbe definito fessi! Fessi perché incapaci di ribellarci ad una siffatta e conclamata ingiustizia economica e sociale perpetrata da oltre un secolo e mezzo e, ancor più grave, avallata dai nostri stessi “politici” terroni da cortile (per citare Malcom X).
Ed è proprio a causa di questa distorta (o inesistente, fate voi) concezione di italianità che un’opera come il ponte sullo stretto è da decenni oggetto di controversie, diciamo politiche, mentre la realizzazione del Mose e la ricostruzione del ponte S.Giorgio (ex Morandi), no!
I costi di manutenzione del MOSE sono previsti in 100 mln l’anno a partire dal 2023 anno in cui la diga mobile dovrebbe essere ultimata…alla faccia del residuo fiscale veneto!
Il primo, costato finora 6 miliardi, prevede per la sua ultimazione nel 2023 un altro miliardino da estrarre dalle tasche dei contribuenti (anche meridionali) così come risulta dalle spese iscritte nel bilancio del Consorzio Venezia Nuova. Senza contare i soldi spariti nello scandalo che coinvolse Galan e senza contare che la consegna dei lavori, iniziati nel 2003, era prevista per il 2016. Funzionerà il Mose nel 2023 dopo 7 miliardi di spesa? C’è chi dice no! Le incertezze si basano sui risultati di alcuni test, che hanno richiesto l’intervento dei sommozzatori per la chiusura di alcune paratoie bloccate da detriti negli ingranaggi. Un problema che non ha soluzione poiché azionandosi le paratoie creano un vortice che risucchia i detriti all’interno degli ingranaggi di fatto bloccandoli! Questa ed altre incertezze, insieme ad un piano di manutenzione ordinaria che ancora non esiste, fanno lievitare i costi di mantenimento del Mose a circa 100 milioni l’anno dal 2023 in poi…alla faccia del residuo fiscale veneto!
Per il nuovo ponte S. Giorgio, invece, l’iter è stato brevissimo! L’hanno chiamato modello Genova e in soli due anni l’hanno rimesso in piedi. Opera strategica per il passaggio delle merci da ponente a levante e viceversa, non poteva attendere oltre. Così via tutta la burocrazia, le gare d’appalto, gli studi di fattibilità eccetera. Andava fatto e così è stato!
Tra Nord e Sud del nostro paese, ci sono meno interessi in comune di quanti ce ne siano tra Svezia e Danimarca… e non per volontà del Sud!
E la Sicilia? E la Calabria? Forse che collegare il ponente al levante in Liguria non abbia la stessa valenza che collegare Messina a Reggio Calabria e quindi un’isola al continente? Per quale oscuro motivo uno stato unitario che sta per incassare (a fondo perduto o in prestito, non importa) 209 miliardi di euro non riesce a pianificare un’opera come il ponte sullo stretto che costerebbe 4 miliardi, forse 5, per la quale ci sono vagonate di studi di fattibilità e una caterva di progetti fin dai primi del ‘900, mentre invece due diverse nazioni come Svezia e Danimarca, nell’interesse comune e in soli 5 anni dal 1995 al 2000, hanno realizzato un ponte (ponte di Oresund) e un tunnel sottomarino da fantascienza che le collega facilitando i rapporti commerciali tra loro?
Semplice: perché tra Nord e Sud del nostro paese, ci sono meno interessi in comune di quanti ce ne siano tra Svezia e Danimarca… e non per volontà del Sud!
La concessionaria Stretto di Messina spa venne messa in liquidazione nel 2013 pagando una penale al consorzio Eurolink/Parsons pari a 300 milioni di euro e un indennizzo di circa 1 miliardo; successivamente lo stesso consorzio avviò una azione risarcitoria per 790 milioni di euro la cui prima udienza si è tenuta nel 2015. Fine della storia e dei soldi dei contribuenti!
La “storia contemporanea” del ponte iniziò nel 1981 con la costituzione della concessionaria Stretto di Messina spa (SdM) che avviò il primo studio di fattibilità e un progetto originario, poi oggetto di successive modifiche, che prevedeva un attraversamento stradale e ferroviario tra la Calabria e la Sicilia per circa 3300 metri. Nel 2005 il consorzio Eurolink e Parsons vinse l’appalto internazionale; poi sette anni di silenzio, tribunali, ricorsi e scartoffie fino alla legge 221/12 che impegnò le due società a firmare entro il 1° marzo 2013 un ulteriore accordo alla luce della situazione economica italiana. La firma non arrivò e SdM spa venne messa in liquidazione nello stesso anno pagando una penale al consorzio pari a 300 milioni di euro e un indennizzo di circa 1 miliardo; successivamente lo stesso consorzio avviò una azione risarcitoria per 790 milioni di euro la cui prima udienza si è tenuta nel 2015. Fine della storia e dei soldi dei contribuenti!
Eppure è di facile comprensione, per chi abbia un minimo di buon senso, come l’opera sia indispensabile per il nostro paese, dal punto di vista della modernizzazione delle infrastrutture, dei collegamenti e del rilancio dell’economia di tutto il Mezzogiorno soprattutto attraverso il collegamento della Sicilia al continente che implicherebbe però la realizzazione dell’alta velocità nell’isola. E qui casca l’asino: il governo e lo stato italiano vogliono costruire l’alta velocità in Sicilia?
Storicamente sembrerebbe proprio di no, soprattutto perché, al di là dei 209 miliardi di euro advenienti, in tempi pre-covid, lo stato italiano ogni 7 anni disponeva di circa 100 miliardi, 50 dei quali ottenuti dai Fondi nazionali (Sviluppo e Coesione), e 50 di Fondi strutturali europei. Fondi che avrebbero potuto finanziare la realizzazione del ponte e di un paio di linee dell’alta velocità siciliana senza problemi, se non fossero stati distratti altrove… e tutti sappiamo dove!
Sul RF la De Micheli va avanti per proclami. Tuttavia dimentica che per ogni euro investito nel Mezzogiorno ne ritornano a settentrione 40 centesimi. Facendo i conti della massaia viene fuori che a Sud resterebbero solo 50 miliardi su 209 … ben al disotto del 34% o del 40% che dir si voglia!
Ma, come dicevo, gli interessi del Nord non sono quelli del Sud il che significa che gli interessi del Nord non sono quelli dell’intero paese, bensì esclusivamente ed egoisticamente i suoi! Lo si capisce dalla ripartizione che il governo sembra voler adottare relativamente ai soldi del RF. I proclami della De Micheli parlano di 40% al Sud cioè di una cifra pari a 83,6 miliardi di euro. La ministra, così come il governo, dimentica però che a causa della forte interdipendenza economica tra nord e Sud del paese per ogni euro investito nel Mezzogiorno ne ritornano a settentrione 40 centesimi. Facendo i conti della massaia viene fuori che degli 83,6 miliardi a Sud ne resterebbero solo 50, ovvero 20 milioni sotto la soglia del 34% previsto dalla costituzione e 33 in meno rispetto ai proclami.
Secondo i criteri di ripartizione europei invece al Sud spettano 145 miliardi su 209 cioè il 70% del totale che comunque ritornerebbe a nord per il 40%!
Se si considera poi che i parametri individuati dall’UE per la ripartizione del RF sono la popolazione residente, il reddito pro-capite e il tasso di disoccupazione medio degli ultimi 5 anni, si capisce come i calcoli nordici siano tutti sballati. Il Mezzogiorno ha un terzo della popolazione italiana, un reddito pro-capite che è la metà di quello nordico e un tasso di disoccupazione triplo! Con questi dati le cifre si capovolgono nettamente a favore del Sud al quale spetterebbero 145 miliardi su 209, ovvero il 70% del totale. Investire una tale mole di denaro a Sud significherebbe, oltre al ponte sullo stretto e all’alta velocità siciliana, anche alta velocità fino a Bari (se non Lecce) e Reggio Calabria, Matera collegata alla rete ferroviaria, porti e aeroporti con alle spalle infrastrutture capaci di creare indotti e mobilità di beni e merci; significherebbe politiche energetiche green e bonifica dei territori lucani inquinati dalle multinazionali petrolifere, significherebbe edilizia scolastica, strade e autostrade degne di questo nome e positivi ricadimenti su tutto il comparto turistico e il suo indotto…e mi fermo qui, benché l’elenco sia lungo! Chi beneficerebbe di una simile rivoluzione economica? Tutto il paese anche e soprattutto il nord che godrebbe del ritorno economico alle sue grandi imprese per la realizzazione delle infrastrutture, nonché del 40% sui 145 miliardi (58 miliardi) derivante dall’interdipendenza nord/Sud.
La miopia del governo, la sua incapacità di operare scelte coraggiose (per quanto impopolari possano apparire agli occhi nordici), la codardia dei terroni da cortile del PUN (partito unico del nord), stanno già consegnando il RF nelle mani dei padroni emiliano-lombardo-veneti che chiedono commissioni bicamerali e procedure burocraticamente farraginose per decidere la destinazione dei fondi. Discorsi e procedimenti che nascondono subdolamente l’intenzione di portare quanti più soldi nel fondo assistenzialistico nordico che in trent’anni ha distrutto l’economia italiana.
Non occorrono bicamerali bensì un piano economico stilato dal governo (e dalle opposizioni costruttive, se ce ne saranno) sulla base dei dati (CPT) e degli studi già disponibili da sottoporre all’approvazione del parlamento.
La via giusta da percorrere, a mio modesto avviso, sarebbe quella di partire dai conti pubblici territoriali e riequilibrarli attraverso iniezioni di capitale che tengano conto delle reali esigenze della popolazione ai fini di garantire eguali servizi su tutto il territorio nazionale, per poi concentrarsi ed intervenire drasticamente sulle deficienze infrastrutturali a Mezzogiorno. Per far questo non occorrono bicamerali bensì un piano economico stilato dal governo (e dalle opposizioni costruttive, se ce ne saranno) sulla base dei dati (CPT) e degli studi già disponibili da sottoporre all’approvazione del parlamento. E poi si parta senza indugi perché non c’è tempo da perdere in chiacchiere da Papeete.
d.A.P.