Tornano le scorie nucleari. Sogin tira fuori una mappa vecchia di 7 anni e individua 67 possibili siti di stoccaggio. Il 54% è a Sud.

Non di rado abbiamo ascoltato i politici italiani, tanti anche meridionali, sostenere che il Sud debba puntare sul turismo, sulla sua storia, sull’agricoltura, sulle sue bellezze naturali e archeologiche e, in tempi di Recovery Fund, sul verde e sulle energie alternative, per conferire un nuovo spunto alla sua economia. Sono gli stessi che si guardano bene dal parlare di infrastrutture, di alta velocità, di imprese, di banche per il Sud.

Tuttavia qualsiasi forma di buon proposito (e non) nei confronti del Mezzogiorno, scompare dalle menti e dai piani di questi signori in due casi: quando si tratti di stanziare risorse (vedi l’inconsistente 34% del RF che vi si vuole destinare) e quando necessiti individuare siti per la realizzazione di opere pubbliche ad impatto rilevante. Se poi trattasi di un sito per lo stoccaggio delle scorie prodotte dalle quattro centrali nucleari dismesse in seguito al referendum del 1987 insieme a quelle derivanti dalle attività di ricerca, medicina nucleare e industria, allora dubbi non ce ne sono: la Carta delle aree potenzialmente idonee (Cnapi) deve contenere anche siti meridionali, perché in questi casi, e solo in questi, siamo tutti italiani.

Lo scorso ottobre l’Europa ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per il grave ritardo accumulato nel procedimento di stoccaggio delle scorie, anche perché francesi e britannici sono alquanto infastiditi dal fatto che il combustibile italiano, una volta riprocessato, sia loro rimasto sul groppone.

Attualmente, da nord a sud, sono 23 i siti (tutti non sicuri) dove è stata raccolta la spazzatura nucleare senza contare il materiale combustibile inviato in Gran Bretagna e in Francia per essere riprocessato a pagamento e da rispedire al mittente. Ed è qui che casca l’asino: lo scorso ottobre l’Europa ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per il grave ritardo accumulato nel procedimento di stoccaggio delle scorie, anche perché francesi e britannici sono alquanto infastiditi dal fatto che il combustibile italiano, una volta riprocessato, sia loro rimasto sul groppone.

Ecco perché la faccenda, non più procrastinabile, ha portato nella notte tra il 4 e il 5 gennaio alla pubblicazione della mappa delle zone idonee ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani. Una mappa alquanto improbabile visto che include anche le isole (probabilmente all’insegna della “solidarietà nazionale” che in questi casi, si sa, non manca mai), dove per trasportare le scorie i costi e i rischi sarebbero altissimi. Resta, allora, il territorio continentale, dove le centrali sono dislocate a Caorso, Trino Vercellese, Garigliano e Latina. Due a nord, una al centro, una a sud. Poi ci sono i vari siti di stoccaggio di cui due molto pericolosi, perché contengono anche combustibile irraggiato, a Saluggia (VC) e Rotondella (MT).

Quella tirata fuori dai cassetti della Sogin all’occorrenza, è una mappa vecchia di 7 anni e Dio solo sa se ancora attendibile relativamente ai parametri adottati per l’individuazione del sito. Sogin, inoltre, non è sinonimo di sicurezza né di garanzia per un corretto svolgimento degli eventuali lavori.

Il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi italiani dovrà, dunque, accogliere tutte le scorie dei 23 siti italiani in una delle aree individuate tra Piemonte, Toscana, Lazio, Puglia e Basilicata. All’insegna della “sicurezza”. Ma proprio in tema di sicurezza, quella tirata fuori dai cassetti della Sogin all’occorrenza, è una mappa vecchia di 7 anni e Dio solo sa se ancora attendibile relativamente ai parametri adottati per l’individuazione del sito. Sogin, inoltre, non è sinonimo di sicurezza né di garanzia per un corretto svolgimento degli eventuali lavori. La società, nata nel 2001, costa agli italiani per le sole spese di gestione 130 milioni l’anno, pagati in bolletta; ha accumulato enormi ritardi nella messa in sicurezza dei rifiuti nucleari nazionali e nello smantellamento degli impianti, spendendo sinora, tutti prelevati sempre dalla bolletta elettrica, più di 4 miliardi di euro per completare circa il 30% dei lavori; di rinvio in rinvio ha programmato la fine del decommissioning nucleare al 2036, 49 anni dopo il referendum del 1987.

Nonostante il procedimento per la scelta del sito sia ancora lungo e preveda comunque il consenso delle comunità interessate e delle istituzioni locali, sono abbastanza certo che la scelta non ricadrà al centro nord.

Di inefficienze nordiche, governative e straniere Basilicata e Puglia, così come tutto il Sud, ne hanno già viste abbastanza, troppe; così come hanno pianto, e piangono ancora, le loro vittime, troppe anche quelle, e subìto l’inquinamento del territorio, nella totale indifferenza del governo e dei governi italiani. Si pensi a ILVA, TAP, ENI, TOTAL (Tempa Rossa) solo per rimanere nel recente passato. Tuttavia, nonostante il procedimento per la scelta del sito sia ancora lungo e preveda comunque il consenso delle comunità interessate e delle istituzioni locali, sono abbastanza certo che la scelta non ricadrà al centro nord.

Non siamo ulteriormente disposti a sacrificare il nostro territorio in nome di una nazione che ci disconosce, ci sfrutta e ci nega le opportunità di sviluppo che meritiamo, mentre subdolamente favorisce sempre i soliti noti. Non siamo più disposti ad essere carne da macello né ad essere intaccati nei nostri interessi economici.

A quel punto, data la nostra ferma opposizione, saremo tacciati di Nimby (Not In My Back Yard), di ostacolare il progresso e di non voler cogliere un’opportunità per creare posti di lavoro e chissà cos’altro ancora. Puglia e Basilicata, con le altre regioni meridionali a supportarle, dovranno essere pronte a combattere sull’intero fronte, perché non è questo il lavoro di cui abbiamo bisogno. Non siamo ulteriormente disposti a sacrificare il nostro territorio in nome di una nazione che ci disconosce, ci sfrutta e ci nega le opportunità di sviluppo che meritiamo, mentre subdolamente favorisce sempre i soliti noti. Non siamo più disposti ad essere carne da macello né ad essere intaccati nei nostri interessi economici. Basilicata e Puglia hanno delle eccellenze da difendere in materia di turismo, storia, enogastronomia e risorse naturali non inquinanti e tutto da perdere dalla costruzione del “Parco (?) Tecnologico”. Noi guardiamo a questo futuro e non agli errori commessi in passato da chi non ci ha mai rappresentato e ciò nonostante pretende di rappresentarci commettendo gli stessi errori.

d.A.P.

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