Riprendo, dopo una lunga pausa, il lavoro di confutazione delle tesi dell’Avv. Cancelliere sul Risorgimento. Nella sua terza e, per fortuna, ultima parte “Speciale Risorgimento: il presunto saccheggio del sud e il brigantaggio” egli si cimenta con l’economia pre e post unitaria, con l’analfabetismo e con il brigantaggio, per poi, nelle conclusioni, parlare di mistificazioni anti-unitarie che si dissolvono “di fronte ad una corretta e documentata analisi storica” (neanche la propaganda fascista arrivò a tanto). Poi passa a elencare una sfilza di nomi di “patrioti meridionali”: no, non preoccupatevi, io non vi elencherò quelli borbonici! Infatti il metodo che adotterò in questo ultimo articolo della serie, sarà quello di confutare le bizzarre tesi del Cancelliere esponendovi le mie ragioni sull’argomento. Poi sarete voi a giudicare, avendo ascoltato le due campane!
Come Cancelliere afferma, il Regno di Sardegna contribuì al debito pubblico italiano per il 60%, ovvero per il doppio di quello duosiciliano. Tuttavia Keynes è meglio lasciarlo nella tomba. L’unico motivo per cui Cavour indebitava il Piemonte al fine di “modernizzarlo” era semplicemente perché gli interessi su quel debito contribuivano ad espandere il suo portafoglio personale, essendo egli stesso fondatore della Banca Nazionale degli Stati Sardi che finanziava le opere pubbliche del regno sabaudo.
Il pareggio di bilancio borbonico non era né sintomo di immobilismo, né di austerità, ma di una politica, sconosciuta ai piemontesi, a favore del popolo. Infatti la critica più comune rivolta alla politica economica borbonica, l’ha etichettata come “fallimento autarchico”, derivante dal “paternalismo” e dal “protezionismo”. Tuttavia chi la pensa in questo modo, ignora (forse volutamente) che il principio su cui essa si basava era proprio quello di uno sviluppo a guida statale il cui scopo era semplicemente salvaguardare gli interessi dei ceti popolari.
Ecco spiegati ad esempio, i dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari, i quali permettevano di vendere, all’interno dello stato, i generi di prima necessità ad un prezzo basso incontrando le esigenze alimentari della popolazione e sfavorendo allo stesso tempo gli interessi dei proprietari terrieri; motivo per il quale essi divennero i nemici giurati della Monarchia sostenendo l’unificazione sotto i piemontesi, i quali promettevano loro una politica economica liberista favorevole ai loro interessi. Sullo stesso piano era anche la borghesia, che scegliendo i Savoia lasciò la Dinastia meridionale priva dell’ appoggio politico delle principali classi economiche del Paese. Marta Petrusewicz (Come il Meridione divenne una Questione, Rubbettino, 1998, pag. 78) riporta che latifondisti e borghesia duosiciliana sostenevano che “una politica economica che pretendeva di produrre tutto e di trovare all’interno i consumatori di tutto, non poteva che fallire ed un progresso industriale ottenuto a forza di dazi non poteva che essere rachitico”. Tuttavia tale affermazione non considerava che le Due Sicilie essendo ancora uno stato in fase pre-industriale (come del resto tutta l’Italia dell’epoca) non era e non poteva, nel breve periodo, diventare concorrente dell’Inghilterra o della Francia, le quali avevano impiegato un secolo ad industrializzarsi “modernamente” e avevano tratto i primi benefici della prima rivoluzione industriale esclusivamente sul lungo periodo. La logica suggeriva, quindi, una “economia protetta” la quale mirasse innanzitutto alla soddisfazione dei consumi interni, per poi, una volta stabilizzatasi, svoltare verso il liberismo.
In tal senso Ferdinando II incentivò l’opera dell’Istituto d’Incoraggiamento, alle dipendenze Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio che aveva il compito di coordinare le attività delle varie società economiche, nate nel 1810 sotto la dominazione francese e potenziate dai Borbone, estendendo il loro campo di azione dalla sola agricoltura all’industria, al commercio e all’artigianato; attraverso l’Istituto d’Incoraggiaento si ottenevano anche informazioni e analisi statistiche sulle attività produttive, ma soprattutto si diffondeva l’ istruzione tecnica specifica agli addetti dei vari settori economici, ottimizzando il loro lavoro.
Già nel 1843 gli operai e gli artigiani erano il 5% dell’intera popolazione occupata e il 7 % alla vigilia dell’unità; in Campania, la regione più industrializzata d’Italia, erano l’11%. Questi dati erano in linea con quelli degli altri stati preunitari ed il risultato della politica industriale dei Borbone, relativamente alla parte continentale del Regno, portò all’esistenza, nel 1860, di circa 5000 fabbriche . Tutto questo non fu valorizzato una volta conquistato dai piemontesi e fu lasciato al proprio destino all’interno del caos liberistico, oppure smantellato e trasferito al nord. Lo stesso Einaudi, scomodato dal Cancelliere, afferma ne Il buongoverno: saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, 1954 : “Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano. Peccammo di egoismo quando il Settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale”. (Ad Einaudi avrei suggerito di usare “molto di meno” in luogo di “qualcosa di meno” e “molto di più “ in luogo di “qualcosa di più”). Il contesto economico arretrato e semi feudale paventato dal Cancelliere, aveva la sua bilancia commerciale in attivo negli scambi con gli altri stati preunitari italiani, eccettuata la Toscana; in passivo con le potenze europee, eccetto con l’Austria. Tuttavia se si paragonano i dati del 1838 con quelli del 1855 sono evidenti i segnali di ripresa che confermano una progressiva espansione economica; stroncata sul nascere! Inoltre, i dati percentuali riportati dal Cancelliere, nel suo confronto Nord – Sud, relativamente all’industria, riguardano esclusivamente il metalmeccanico, la seta ed il cotone e sono, perciò, dati di settore, quindi, parziali. Se si osserva l’industria duosiciliana in una visione di insieme, il risultato cambia: nel 1861 la regione con la più alta percentuale di popolazione attiva occupata nell’industria è la Calabria (28,8%) seguita da Campania (23,2%) e Sicilia (23,1%). La più alta percentuale di occupati nell’agricoltura è in Valle d’Aosta (90%), Friuli Venezia Giulia (81,8%), Piemonte e Umbria (81,1%) ( Fonte Censimento generale, 31 dicembre 1861). Chi era arretrato avvocato? Il Regno delle Due Sicilie era talmente arretrato da fornire navi a vapore e locomotive al Piemonte (e non solo) che non era in grado di fabbricarle da sé!
Cancelliere riporta poi l’esigua espansione della rete ferroviaria del Regno, come testimonianza della sua arretratezza. Già in altra sede ho discusso tali obiezioni e qui mi limiterò a dire soltanto che i 100 Km di ferrovia presenti nel Regno, alla vigilia dell’occupazione, servivano le industrie e le attività commerciali che esportavano i loro prodotti fino negli Stati Uniti in 26 giorni. Questo perché, geograficamente, l’unica via al commercio mondiale per i Borbone era il mare. Alla vigilia dell’occupazione, la flotta mercantile borbonica era seconda in Europa solo a quella Inglese. Daniele e Malanima, citati dal Cancelliere ma evidentemente non letti, non parlano di un trentennio di divario costante tra nord e sud, ma di un trentennio in cui si pianificò, politicamente l’allargamento del divario in favore delle industrie del nord, riducendo il sud a mero salvadanaio da dove attingere i fondi. Si spiegano così la pressione fiscale maggiore, lo smantellamento e la “deportazione” degli apparati industriali di Mongiana che hanno fatto ricca Brescia, di Pietrarsa le cui commesse furono dirottate all’Ansaldo di Genova e potrei continuare. Carlo Bombrini, senatore del Regno d’Italia e governatore della Banca Nazionale dal 1861 al 1882, nonché capo dell’Ansaldo ed alienatore dei beni del Regno delle Due Sicilie ebbe a dire:”I meridionali non dovranno mai essere più in grado di intraprendere”. Questo illustra, caro Cancelliere, il debito che le classi dirigenti dovevano saldare alla borghesia imprenditoriale nordica, per aver “fatto” l’Italia; la politica italiana nei confronti del meridione, ne fu solo la logica conseguenza. I grafici che vi propongo di seguito sono elaborati (da eleaml.org) proprio sui dati forniti da Malanima e Daniele. Traete le vostre conclusioni.
La sperequazione ed il drenaggio di risorse nei confronti del Sud, furono quindi pianificati politicamente dai settentrionali in favore del nord e le” tesi degli economisti” sono confutate dalla storia.
I merito all’alfabetizzazione del meridione,poi, Cancelliere si fa aiutare dai dati del libro di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro”. È bene sapere, tuttavia, che nel suo libro Felice tenta di smontare il procedimento di Malanima e Daniele che però Cancelliere ha citato precedentemente in merito ai dati economici. Gli stessi Daniele e Malanima su la Rivista di Storia Economica, n. 1, febbraio 2014, questo dicono del lavoro di Felice: “In realtà una discussione del libro di Emanuele Felice sarebbe più adatta alle colonne di giornali e di settimanali che a una rivista di storia. Abbiamo, tuttavia, pensato che fosse il caso di commentarlo con una certa ampiezza sulla Rivista di Storia Economica per due ragioni. La prima è che l’autore promette, nell’Introduzione, «di costruire e forse di restituire, all’Italia tutta, quel racconto veritiero della questione meridionale e sui divari regionali che attualmente manca» (p. 8). Un obiettivo ambizioso davvero! Chi fa ricerca non può rimanere insensibile alla promessa di un «racconto veritiero» su un tema di tanto rilievo. Finalmente – vien fatto di dire –, dopo un secolo e mezzo di discussioni sulla questione meridionale, troveremo nero su bianco quanto è stato cercato invano da generazioni di studiosi! La seconda ragione è di carattere personale. Essendo stati chiamati in causa criticamente e a più riprese in questo volume, ci è sembrato scorretto non replicare. La ricerca si alimenta di critiche e discussioni. Non vogliamo sottrarci alle regole del gioco.” E ancora: “Mentre le nostre serie sono per anno e sempre nei confini attuali delle regioni (o gruppi di regioni come il Piemonte-Val d’Aosta e l’Abruzzo-Molise, considerate da noi come parti di un’unica regione), quelle di Felice sono ai confini dell’epoca, per decennio (gli anni 1881 e 1921 mancano), e iniziano col 1871.” Ma allora avvocato, lei (o Felice) come fa a dire che i dati riportati rispetto all’analfabetismo al sud sono relativi al 1861? I dati sull’analfabetismo, anche quelli riportati da Malanima e Daniele, partono dal 1871 cioè dieci anni troppo tardi per un’indagine che voglia comprendere il sistema di istruzione borbonico; ma soprattutto includono nelle stime del sud Italia, la Sardegna che fino a prova contraria, con il suo 90% di analfabeti, avrebbe dovuto far media nel regno sabaudo! La pubblica istruzione del Regno delle Due Sicilie era organizzata secondo uno schema al cui vertice spiccavano le quattro Università del Regno: Napoli, Palermo, Messina e Catania. Gli istituti scolastici ( Reali Licei e Reali Collegi, seminari e scuole secondarie) erano presenti in tutti i principali comuni, mentre le scuole primarie erano in tutti i comuni. L’istruzione elementare era gratuita e ispezionata di frequente. Vi era, inoltre, nel Regno, una elevata presenza di scuole private, alle quali si accedeva sia gratuitamente, sia a pagamento. Di particolare importanza, per il loro target, erano le scuole dell’Ordine degli Scolopi, le quali non solo erano gratuite, ma erano riservate esclusivamente ai poveri che dovevano però dimostrare (attraverso certificazione rilasciata dal sindaco o dalle autorità ecclesiastiche) di esserlo realmente. A pagamento, ma con una quota di accessi riservata alle borse di studio, erano le scuole dei Gesuiti. Ogni scuola aveva il proprio regolamento; gli orari delle lezioni e la durata dell’anno scolastico non erano stabilite a livello centrale, ma decise in base alle esigenze del territorio e delle famiglie. I libri di testo adottati non erano imposti dal Ministero, ma erano dei manuali scelti tra le opere ritenute le migliori pubblicate, relativamente alla disciplina. (l’attuale Ministero della Pubblica Istruzione dovrebbe prendere esempio da una simile organizzazione!)
Sotto il regime unitario, invece, il sistema scolastico italiano divenne, in un’ottica massonica, uno strumento di indottrinamento vero e proprio. Tutte le scuole dell’ex Regno delle Due Sicilie furono chiuse; vennero riaperte solo quelle che si adeguarono alla legge Casati! I collegi degli Scolopi, che come detto erano scuole gratuite e riservate a non abbienti, furono tutti chiusi e i loro archivi di Napoli bruciati da Luigi Settembrini, affinché di essi non rimanesse traccia. Ora le è più chiaro, Cancelliere, perché a dieci anni dalla conquista sabauda, nel 1871, il sud era diventato analfabeta?
In merito al brigantaggio, Cancelliere cita Nitti e Barbero. Sebbene il primo sia tra i “pentiti” dell’ultim’ora, del secondo chi legge conosce il mio giudizio. Barbero è un medievista prezzolato dal regime per riqualificare agli occhi dei meridionali il periodo peggiore della storia italiana: il Risorgimento. Farebbe bene ad occuparsi del Medioevo! Detto questo il Brigantaggio fu, in realtà, una vera e propria guerra partigiana e nei libri di storia non troverete mai una simile definizione! Non mi dilungherò a descriverne le cause, ma riporterò solo alcune considerazioni illustri in merito, non prima di aver precisato che lo sbarco in Calabria del generale Catalano Borjes, proveniente da Malta (protettorato inglese), non è la prova dell’“innocenza” inglese rispetto alle vicende del processo unitario; anzi né è l’atto d’accusa! Borjes ebbe il benestare di Londra perché gli inglesi capirono (tardi) l’errore commesso nel fidarsi dei Savoia; capirono (tardi) di aver conferito all’Italia unita “quella stessa debolezza geopolitica che aveva accelerato, se non addirittura provocato, la fine del Regno delle Due Sicilie”; capirono (tardi) che “il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un’impresa illegittima e scellerata che aveva portato all’instaurazione di un vero e proprio regno del terrore”. (E. Di Rienzo – Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee – 1830-1861). Questo regno del terrore, unitamente alla debolezza geopolitica congenita al nuovo stato, impedirono di fatto agli inglesi di realizzare il sogno del protettorato siciliano! Ritornando al Brigantaggio vi basti il giudizio di Benjamin Disraeli (inglese!) che rivolto ai deputati del parlamento diceva: “Desidero sapere in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia e non ci è permesso su quelle del Meridione italiano. E’ vero che in un Paese (Sud Italia) gli insorti sono chiamati briganti e nell’altro (Polonia) patrioti, ma non ho appreso in questo dibattito alcuna differenza”.
Concludo, ahimè, con Giuseppe Garibaldi il conquistatore che, in merito alla sua scellerata impresa, scriveva nel 1868 ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, avendo colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Capito perché il Brigantaggio, avvocato Cancelliere?
d.A.P.