Si può tranquillamente affermare che questo mese di ottobre è stato il mese dei referendum per l’indipendenza. Prima la Catalogna, poi quello del lombardo-veneto che, indetto inizialmente con intenzioni indipendentiste, successivamente ha virato sul federalismo fiscale e quindi sull’autonomia.
La maggior parte dei votanti, infatti, con in testa Luca Zaia, vede nel successo della consultazione il punto di partenza che ha la separazione dall’Italia come traguardo.
Ma davvero la Catalogna, la Lombardia ed il Veneto posso essere assimilabili?
E se sì sotto quali aspetti e se no perché? Questa è la domanda che mi è sorta e alla quale ho tentato di rispondere.
Del resto la mia assenza dal blog per questo lungo periodo (non ho neanche scritto di Genoa – Napoli, ma lo farò) è servita proprio a studiare e documentarmi per dare un giudizio, condivisibile o meno, rispetto all’accaduto.
L’11 settembre 1714 l’esercito catalano, da più di un anno sotto assedio a Barcellona, veniva sconfitto dall’esercito dei Borbone e la Catalogna entrava a far parte della Spagna di Filippo V. Tuttavia fino ad allora essa esisteva come regione da ben prima dell’anno mille e si riconosceva in quelle regioni dove si parlava il catalano (Valencia, Baleari, parte dell’Aragona, Andorra e la regione francese del Rossiglione, oltre naturalmente a Barcellona).
Da quel momento la storia catalana è connotata da una endemica insofferenza nei confronti della corona.
Solo nel 1931 con la proclamazione della Repubblica di Catalogna e una lunga trattativa con Madrid nacque l’attuale Generalitat de Catalunya che gode di significative autonomie. Successivamente alla dittatura di Franco, durante la quale il catalanismo, i suoi simboli, vessilli e lingua, furono mesi al bando, prima nel 1978 e poi nei 2006 due statuti hanno definitivamente dichiarato la diversità anche istituzionale della regione.
Tuttavia nel 2010 il Tribunale Costituzionale Spagnolo su pressione dei partiti di governo, ha svuotato di significato lo statuto del 2006. E’ da questo punto che l’indipendentismo catalano cresce a vista d’occhio fino a toccare i valori odierni. In sette anni si è sviluppata una progressiva insofferenza dei catalani nei confronti dello Stato spagnolo, i cui connotati sono esclusivamente politici e non riconducibili a risentimenti di qualsiasi natura contro gli spagnoli.
Bene lo sintetizza Francesc – Marc Alvaro, editorialista del quotidiano La Vanguardia e professore dell’Università Ramon Llull: “Il carattere civico, non etnico, del catalanismo radica il suo discorso nell’esercizio della democrazia e non nei messaggi identitari. Lo scopo principale dell’indipendentismo era organizzare un referendum d’accordo con il governo centrale, come quello che avevano celebrato gli scozzesi nel 2014. Rajoy non ha mai voluto parlarne, così come i socialisti. Perché il Pp e il Partito socialista operaio spagnolo si rifiutano? Perché dovrebbero prima riconoscere la Catalogna come una nazione (così avevano fatto il Regno Unito con la Scozia e il Canada con il Québec), cosa impensabile secondo la mentalità centralista che domina oggi le élite spagnole. E quindi l’indipendentismo catalano prova a fare qualcosa di insolito: un referendum contro il divieto espresso dello Stato.” Ecco cos’è stato il referendum catalano: qualcosa di insolito contro il dietro front della Spagna rispetto alle concessioni del 2006.
Ma a livello storico-politico (quello economico lo analizzeremo dopo) è lo stesso per i nostri “fratelli” lombardi e veneti?
In tutta onestà non direi proprio. In Italia la riforma costituzionale del 2001 prevede che è possibile attribuire alle regioni con statuto ordinario ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, purché sia tutto legiferato (art. 116 e terzo comma art. 117). Queste “condizioni particolari di autonomia” sono chiamate in “legiferese” materie a “legislazione concorrente”. E la stessa costituzione delinea il procedimento da adottare per arrivare ad una legge che determini per una regione la sua maggiore autonomia rispetto a queste materie, senza dover ricorrere al referendum. Perché allora la Lombardia ed il Veneto sono andate al voto? La lega, per governare, ha fatto, fa e farà sempre leva sul sentimento antimeridionale che lei stessa ha suscitato nei nostri “fratelli” settentrionali, i quali sono andati alle urne referendarie a dire che tra loro e noi c’è una distanza incolmabile e che il nord è stanco di “foraggiare” il sud.
Ecco la differenza con il referendum catalano! Storicamente, checché ne dicano Maroni & C. la Lombardia non è mai stata indipendente ma sempre divisa tra est e ovest. E se il Veneto può vantare una tradizione repubblicana notevole, il popolo lombardo è sempre stato un popolo assoggettato allo straniero. Di fatto l’operazione referendaria dei due governatori è stata semplicemente e meramente campagna elettorale per le prossime elezioni politiche e regionali. Una valvola di sfogo per quella popolazione repressa e governata da chi avrebbe potuto già chiedere ed ottenere da 16 anni a questa parte le autonomie che desidera e non lo ha mai fatto.
Questo denota il livello culturale e dirigenziale della classe politica leghista se non italiana. Se quello catalano è un referendum di carattere civico e non etnico, quello di Zaia e Maroni è l’esatto contrario; se il catalanismo radica il suo discorso nell’esercizio della democrazia, il leghismo lo radica nei messaggi identitari: “noi non siamo come loro!”
L’aspetto economico della vicenda, invece, ci fa convergere su una similitudine. Sia la Catalogna che il Nord-Est sono le regioni più produttive dei rispettivi paesi e contribuiscono maggiormente alle casse statali. Ma se in Spagna il procedimento di revisione degli statuti ha permesso alle comunità autonome di appropriarsi in modo progressivo di nuove autonomie, la devolution all’Italiana, consistente nello smembramento della centralità a favore della confusione locale, ha soltanto aumentato le differenze (già presenti dal 1861) ed ha esaltato i connotati ideologici ed identitari dei regionalismi.
Ben venga, allora, una riforma federalista in senso radicale che renda responsabile ogni regione nei confronti della “centralità” e che a loro affidi tutte le cosiddette 23 materie a legislazione concorrente, accompagnata però da una profonda revisione del rapporto tra cittadino ed istituzioni, attualmente in crisi profonda, che si basi sul “diritto a decidere” dei catalani: perché è il cittadino che deve diventare l’assoluto soggetto decisionale. In questo modo soltanto, emergerebbe davvero chi vale e per quanto!
Di più: se consideriamo che la Catalogna non ha conquistato, ma è stata conquistata, e successivamente valorizzata nelle sue differenze, tanto da risorgere ancora più forte, si capisce da dove provengano le scaramucce identitarie lombardo-venete! Il sud trattato da colonia e depauperato delle sue ricchezze dal conquistatore a causa della sua “diversità” , ha contribuito in tal senso all’attuale benessere settentrionale. Ed ora il settentrione vorrebbe il regolamento dei conti?
Il prof. Giordano Bruno Guerri, in un suo tweet del 23 ottobre, ha scritto: “1866, plebiscito in Veneto per l’annessione all’Italia. 151 anni dopo inizia il distacco. Si vede che era solo un flirt”. Gli hanno obiettato che il plebiscito fu forzato dai Savoia perché i no furono lo 0.06%. A questa obiezione io obietto dicendo che almeno sulle loro schede c’era la voce “NO”. Al sud misero solo il “SI”!
Sempre Bruno Guerri il giorno dopo su Il Giornale scrive: “Lo Stato italiano non è forte, tanto meno al proprio interno, e non saprà difendere la propria unità, come non ha saputo realizzare, errore capitale, un vero federalismo. Concessione dopo concessione, una qui una là, una su una giù, finirà per arrivare a una situazione di non ritorno. Del resto è scomparso l’Impero Romano, vuoi che non scompaia, un giorno, anche l’Italia?”.
Sottoscrivo!
Tuttavia la soluzione l’avevano trovata, manco a dirlo, un gruppetto di liberali italiani che riunitisi a Bologna nel 1832, avevano chiesto al re Ferdinando di Borbone delle due Sicilie di unire la penisola in tre stati/regni federali e federati. Lo stesso Ferdinando a più riprese chiese in tal senso l’aiuto del cugino Savoia, il quale però aveva altri progetti (conosciamo bene quali) per la mente. Eugenio Scalfari ebbe a dire: “Non fu Unità! Fu occupazione piemontese, e se l’avesse fatta il Regno di Napoli, che era molto più ricco e potente, sarebbe andata diversamente. La mentalità savoiarda non era italiana. Cavour parlava francese. E gli italiani quello Stato l’hanno detestato”.
Sicuramente non potremo mai sapere come sarebbe stata l’Italia di Ferdinando II, ma altrettanto sicuramente essa non avrebbe assistito a tali storture; soprattutto non sarebbe mai stata lo zerbino delle potenze europee come lo è oggi!
d.A.P.