Lo scorso primo Maggio il largo senza nome tra Via Taverna del Ferro e Via Domenico Atripaldi nel quartiere San Giovanni a Teduccio, è stato intitolato ai martiri di Pietrarsa: “Piazza Martiri di Pietrarsa” è il toponimo. L’iniziativa segue quella di due anni or sono adottata dal comune di San Giorgio a Cremano dove la centrale “Via Ferrovia” ha cambiato nome in “Via Martiri di Pietrarsa”. Questo è il Sud che ci piace, il Sud che rinnega la damnatio memoriae di regime; il Sud che vuole ricordare la sua storia, che vuole ricordarsi di sé. Perché Pietrarsa accadde 25 anni prima di Chicago. Eppure in Italia si celebra il primo maggio e non il sei agosto.
Nel 1840, per volere di Ferdinando II di Borbone, fu istituito il Real Opificio Borbonico di Pietrasa. Complementare alla fabbrica era la Scuola d’Arte, istituto per la formazione di operai specializzati e macchinisti, dove si insegnavano matematica, scienze meccaniche, geometria, lingue, architettura, disegno meccanico. Inutile ricordare in questa sede l’eccellenza che già nel 1853 Pietrarsa aveva raggiunto. Stabilimento invidiato ed imitato in tutta Europa, che riceveva commissioni perfino dal Sud America.
Con la conquista piemontese, in pochi anni una tale eccellenza fu ridotta sul lastrico. L’ing. Sebastiano Grandis, piemontese, già direttore delle officine ferroviarie del Regno di Sardegna dal 1854, nella sua “eminente” relazione “Sullo stabilimento metallurgico e meccanico di Pietrarsa presso Napoli” (pubblicata nel 1861), definiva la fabbrica “più ampia [rispetto all’Ansaldo di Genova – ndr] e ricca di macchinari, ma tuttavia eccedente nei costi [per le misere casse piemontesi – ndr] e nel numero di operai”. Infatti ne propose la demolizione. Tuttavia quello che il Grandis ignorava era che a Pietrasa si lavorava già da tempo su turni di 8 ore con una paga che permetteva agli operai (ne erano impiegati 1000 nel 1861) una vita più che dignitosa. Questi erano i motivi economici, per i quali il Piemonte non poteva permettersi Pietrarsa; e la produzione, i macchinari e le maestranze specializzate furono spostate all’Ansaldo di Genova, nemmeno un quinto, per qualità e quantità, della fabbrica napoletana. I capireparto di Pietrarsa finirono ad insegnare il mestiere agli arretrati operai genovesi. Il Real Opificio divenne così oggetto di una speculazione economica di bassa lega perpetrata da Torino al fine di fiaccarla definitivamente in favore di Genova. Affidata ad un affarista milanese, tale Jacopo Bozza, per la miseria di 46 mila lire all’anno, la fabbrica vide diminuire costantemente, per ingiustificati esuberi, rendimenti insoddisfacenti o atti di indisciplina, il proprio organico. Già si leggevano sui muri le scritte anonime “Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria” . Certo è che chi le scrisse, colse nel segno! Poco dopo si elevarono le ore di lavoro a 11 e si diminuirono i salari da 35/40 grana (centesimo del Ducato) a 30. Gli operai, popolo civile, cresciuto all’ombra del dialogo e della pace, tentarono di trattare per 10 ore a 35 grana, ma “gli ingannatori e i ladri” furono irremovibili. Fu allora che decisero di protestare tutti insieme. E badate bene che la protesta nel Regno delle Due Sicilie non era mai violenta, perchè era strumento per intavolare una trattativa. Lo diventò sotto i Piemontesi che non hanno mai saputo parlare l’Italiano. I documenti aziendali di quel 6 agosto 1863 dicono che sul piazzale della fabbrica erano presenti 668 operai. Che la manifestazione fosse pacifica lo dimostra il fatto che sia Bozza che il suo segretario Zimmermann passano attraverso i dimostranti, senza essere toccati, per recarsi presso le autorità di Polizia di Portici al fine di richiedere un loro intervento. Non si sbaglia a supporre che ciò che i due riferirono fu diverso dalla realtà, visto che da Portici arrivò quasi un intero battaglione ( il 33° sotto il comando del maggiore Martinelli) inviato dal questore Nicola Amore; e non si può credere alle cronache del tempo, che ridimensionarono l’accaduto parlando di “fatali e irresistibili circostanze” cagionate da “provocatori e mestatori borbonici”, se al di là dei cancelli si posizionarono soldati armati di tutto punto. Da un lato i manifestanti fieri ma pacifici, memori di una civilissima tradizione che li aveva accompagnati fino a quel momento; dall’altro altrettanti uomini armati fino ai denti inclini alle stragi di innocenti. Ignari di ciò che stava per accadergli gli operai aprirono i cancelli ai soldati che, senza essere stati attaccati e senza alcuna minaccia reale, assunta la formazione, spararono sugli operai inermi. La folla si disperse immediatamente, ma i savoiardi, la polizia e i carabinieri comunque caricarono e assaltarono alla baionetta i fuggitivi. Le fonti ufficiali parlarono di quattro morti e una ventina di feriti; ed è ciò che conosciamo ancora oggi. Tuttavia, su comunicazione della stessa azienda, il 13 agosto, quando Pietrarsa riaprì, mancavano all’appello 216 operai. Traete voi le conclusioni.
A Nicola Amore, il capo del massacro, al quale a Napoli è intitolata una piazza (oltre al danno la beffa), per fortuna meglio conosciuta come i “Quattro Palazzi”, la strage servì per fare carriera: ministro e sindaco. Gli ufficiali denunciati per evidenti eccessi, furono tutti assolti.
Di sicuro quel 6 agosto i Piemontesi, insieme ai collaborazionisti locali, perpetrarono l’ennesima infamia ai danni di un popolo pacifico, quella del Regno delle Due Sicilie, dimostrando ancora una volta, se mai avessimo bisogno di ulteriori conferme, la loro natura criminale e malvagia e di conseguenza la natura criminale e malvagia, fin dalla nascita, dello stato italiano.
d.A.P.