“Giuseppe d’Amore non era un ex soldato del disciolto esercito, non era un brigante, e non poteva avere alcuna reale consapevolezza sul significato degli avvenimenti” intorno a lui e nel suo paese in quel luglio 1861. Giuseppe D’Amore era solo un ragazzino di tredici anni, figlio di contadini, che viveva a Verzare nei pressi di Montefalcione. Fu fucilato proprio a Verzare l’11 luglio 1861 alle ore 13.00 da “un plotone di assassini in divisa”. Il suo nome è nell’archivio della Chiesa Madre di Montefalcione, insieme a quello di tante altre vittime della strage compiuta dall’esercito occupante piemontese e dalla spietata Legione Ungherese al soldo del re usurpatore. Con questo episodio voglio cominciare a narrarvi di Montefalcione e dei comuni limitrofi che insorsero già dal 1860 contro l’occupazione sabauda. Il mio incipit (tratto da “La Rivolta di Montefalcione” di E. Spagnuolo) è dovuto all’aver cercato in rete notizie in merito all’omicidio del fanciullo e a non aver trovato nulla (a differenza di come accadde invece per Angelina Romano, 9 anni): la foto ad inizio articolo, infatti, è relativa alla fucilazione di Vincenzo Petruzziello, altro eroe di quei giorni. Ho trovato, tuttavia, tanti Giuseppe D’Amore residenti a Montefalcione e mi sono chiesto, quasi spontaneamente, se questi signori sappiano o meno il nome di chi portano; magari ne sono gli indiretti discendenti e non lo sanno. E questo perché anche loro, come tanti di noi, sono vittime, indirette e inconsapevoli, delle violenze subite, allora e oggi, e vittime, altresì, del lavaggio del cervello perpetrato dai piemontesi nei confronti di coloro che sopravvissero e rimasero nei territori del Regno Borbonico. Perché ad essere trattato da “inferiore”, generazione dopo generazione, finisci per convincertene! E così mi è tornata in mente la frase di Milan Kundera che afferma: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della loro memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. Ed il mondo intorno a lui lo dimentica ancora più in fretta”. Non c’è verità più assoluta di questa per riassumere la conquista, culturale e soprattutto sociale, del Regno delle Due Sicilie da parte del Piemonte. Tutte le rivolte scoppiate a Sud contro i piemontesi hanno un unico comune denominatore: il popolo. Al popolo si unirono gli ex soldati borbonici che li organizzarono e li disciplinarono; a loro si unirono i briganti. E tutti vengono ricordati con questo nome (più tardi vedremo chi erano davvero i briganti tra le due fazioni). La nobiltà terriera e la borghesia (media e alta) si schierarono tutti a favore dell’occupazione per mantenere i loro privilegi ed acquisirne di nuovi a discapito del popolo basso che invece era preservato e favorito dai Borbone. Comprati loro, i piemontesi sapevano di avere il Regno in pugno, poiché ne occupavano le posizioni nevralgiche. E i funzionari borbonici leali e legittimisti furono rimpiazzati da burocrati corrotti e malavitosi (per esempio il sindaco di Montefalcione Pasquale Mauriello…lascio a voi la ricerca). Partiamo, dunque, con l’analisi dei fatti di Montefalcione che scaturiscono dall’insurrezione di Montemiletto nel settembre 1860. Quasi all’unisono con l’entrata in Napoli di Garibaldi e con la dichiarazione della dittatura napoletana, in tutti i comuni del Sud continentale le famiglie liberali (d’accordo con i Piemontesi che la presa di Napoli fosse il “segnale” convenuto) e i loro seguaci, spesso malviventi al loro soldo, rovesciarono le legittime istituzioni con la violenza e instaurarono il governo del Regno d’Italia. Questo accadde anche a Montemiletto i cui abitanti però reagirono con risolutezza a tale abuso. Già pochi giorni dopo, al grido di “Viva Francesco II”, tutto il paese si sollevò guidato da Matteo Lanzilli e Carmine Ardolino. Uno sparuto gruppo di contadini entrò nel palazzo di Giuseppe Fierimonte capo dei liberali e capitano della Guardia Nazionale facendo 23 vittime tra cui lo stesso Fierimonte. Il 7 settembre 1860, però i garibaldini entrarono in Montemiletto arrestando i rivoltosi e vendicandosi sulla popolazione inerme. Quasi 500 incriminati e 400 arresti; il resto fuggì nei boschi dove, mesi dopo, fu raggiunto ed organizzato dagli ex soldati borbonici. Tra questi figurava il 25enne Basilio Generoso Pagliuca figlio di un facoltoso proprietario terriero di Montefalcione che scelse lealmente dove schierarsi, coadiuvato, in seguito, da Gaetano Maria Baldassarre, anch’egli proveniente da famiglia in vista di Montefalcione. In particolare il Baldassarre aveva capeggiato gli eventi di Montemiletto ed aveva riparato successivamente a Gaeta da dove, in virtù degli accordi di capitolazione, era tornato a Montefalcione (presumibilmente nel febbraio 1861) ed agiva in clandestinità con riunioni ed incontri segreti al fine di preparare una nuova reazione popolare. Fece frequentemente affiggere, anche sui muri dei paesi vicini e financo sotto la casa del sindaco di Montefalcione, manifesti inneggianti all’insurrezione contro Garibaldi e i Savoia. Se il Pagliuca fu il braccio militare dell’operazione, il Baldassare ne fu quello politico. Nel febbraio del 1861, la Guardia Nazionale di Montefalcione non era assolutamente in grado di controllare la campagna da dove i legittimisti esercitavano forti pressioni sulla popolazione. Il 6 luglio 1861 due uomini armati si presentarono al sindaco del paese intimandogli di distruggere le insegne sabaude e giurare fedeltà al Re Borbone. Il sindaco fingendosi accondiscendente, riparò successivamente a Candida. Quello stesso pomeriggio sessanta uomini, alla cui testa c’era il Pagliuca, entrarono a Montefalcione e con l’aiuto della popolazione e senza incontrare alcuna opposizione, disarmarono i pochi mercenari della Guardia Nazionale, issarono il vessillo borbonico e ne dichiararono restaurato il governo. Le poche famiglie liberali, fuggirono. Il giorno dopo i legittimisti respinsero un primo attacco sabaudo portato da una colonna di cento soldati capitanati da Carmine Tarantino. Intanto Montefalcione era diventato il quartier generale dell’insurrezione e dai paesi vicini tutti vi accorrevano. La rivolta si propagò nei giorni seguenti a Chiusano San Domenico, San Potito, Parolise, Salza, Candida, Sorbo, Volturara, Manocalzati, San Barbato, Pianodardine, Lapio, Luogosano, San Mango e Tufo. Tutti successivamente patirono la sorte di Montefalcione. Quasi nulla si conosce di quello che accadde in questi luoghi nei giorni seguenti alla breve restaurazione, ma è certo, perché riportato nei verbali dei processi piemontesi, che la popolazione non patì né furti né violenze; e questo soprattutto per merito di Pagliuca. Dappertutto furono distrutte le effigia di Garibaldi e di Vittorio Emanuele e issata la bandiera dei Borbone. Ovunque si ristabiliva la legalità del precedente governo al fine di evitare sciacallaggio e delinquenza e permettere alla popolazione di riprendere la vita quotidiana.
Ad Avellino intanto non si disponeva di militari per contrastare l’insurrezione ed avendo capito la gravità della situazione il comando di Napoli richiese al colonnello Jhasz, comandante della Legione Ungherese di stanza a Nocera dei Pagani, di inviarvi trecento uomini e tutti gli Ussari disponibili; “veri patrioti” italiani (secondo il Tecce)! L’etimologia della parola Ussaro, ci dice che così si chiama un militare di cavalleria. Essa proviene dal francese hussard ed è di origine serba, gusar che significa pirata, e greca bizantina, sarios che significa brigante: ecco, quindi, chi erano i veri briganti! La mattina del 9 luglio, comandati dal maggiore Girczy, erano ad Avellino 3 compagnie del battaglione di fanteria insieme a 120 “briganti” ungheresi. La prima compagnia diresse su Montefusco, la seconda su Montemiletto per poi convergere insieme alla terza su Montefalcione. La notizia dell’arrivo degli Ungheresi, noti per la loro ferocia, disperse la maggior parte dei contadini nei campi e nelle case. Queste ultime furono bruciate e uccisi tutti coloro che ne uscivano. I legittimisti ripararono nella parte alta del paese dove per un po’ riuscirono a resistere. Furono poi inevitabilmente attaccati da ogni parte e massacrati. Terminata la battaglia partì la caccia all’uomo rastrellando tutti i campi e i boschi circostanti. Le conseguenti fucilazioni durarono fino alle undici della sera. E i setacciamenti continuarono nei giorni successivi. Se degli altri paesi non si conosce il numero delle vittime, a Montefalcione, messa a ferro e a fuoco, se ne contarono tra le 135 e le 150. Ma furono contati e ufficialmente comunicati, dagli Ungheresi, solo i caduti nel paese. Dei successivi rastrellamenti nelle campagne e nei boschi (l’ordine era di sparare a vista) non è dato sapere.
“E tutto ciò perché secondo una voce moderna, erano assassini gli infelici, che dopo aver combattuto da prodi negli eserciti reali per mantenersi fedeli al paese e al giuramento, per non piegare il ginocchio allo straniero, senza armi, senza uffiziali, senza duci, che la più parte erano stati compri o disertori, erano corsi sui monti per difendere comeché in lotta ineguale, la indipendenza della patria loro e i dritti della loro Dinastia. Le più nefande memorie delle guerre civili a fronte delle enormi atrocità piemontesi impallidiscono; queste orde sabaude pareano invase da rabbia d’inferno per distruggere un popolo generosissimo, che non potea onoratamente perdere l’indipendenza che dopo averla difesa sino all’estremo” (Zigarelli).
Coloro che compirono quest’ “impresa” furono decorati con le croci di cavaliere dell’ordine militare dei Savoia e con menzioni onorevoli, e ancora oggi una delle strade principali di Montefalcione si chiama via Sabaudia: il segno dell’arrogante e sprezzante intento di trattarci come una colonia; intento che ancora oggi vige incontrastato. Un invito accorato va a quell’amministrazione comunale affinché si rimuova definitivamente una tale nefandezza dal nostro territorio!
Ci hanno maltrattato, disprezzato, isolato dagli stati amici, accusato di essere arretrati, sottosviluppati, spietati, cialtroni, corrotti; e ancora ci accusano!
Eppure loro ci hanno invaso! Nella nostra terra, senza dichiarare guerra e con eserciti di mercenari pagati con i soldi dei quali ci hanno derubati; hanno sterminato le nostre famiglie, i nostri padri; hanno cancellato i nostri punti di riferimento nella società, le nostre tradizioni e si sono appropriati del nostro benessere; hanno fatto emigrare per fame 20 milioni di persone che hanno lasciato figli e mogli in balìa di loro stessi; hanno imbarbarito la società della più civile nazione europea del XIX secolo.
E saremmo noi i barbari? Saremmo noi i briganti? Solo perché ci siamo difesi e di nuovo (finalmente!) cominciamo a farlo?
W. Shakespeare fa dire a Shyloc ne “Il Mercante di Venezia” :“Mi ha maltrattato, gioito delle mie perdite, disprezzato i miei guadagni, raffreddato i miei amici, riscaldato i miei nemici, insozzato il mio abito, disprezzato il mio popolo e per quale motivo? Perchè sono ebreo! Forse che un ebreo non mangia come gli altri esseri umani? Se lo pungete non prova dolore? Non si ammala delle stesse malattie dei gentili? E non si cura con le stesse medicine?”.
Io sono fiero di essere nato e cresciuto in questa terra nobile. Fiero di poter dire di essere fedele alla mia storia, quella vera, e alle mie tradizioni. E se per questo sono brigante, allora sia!
d.A.P.
Fonti: Edoardo Spagnuolo “La Rivolta di Montefalcione. Storia di un’insurrezione popolare durante l’occupazione piemontese”