Una nota del ministero dell’Ambiente del 31 gennaio 2018 (fonte ANSA) convoca per il 13 febbraio prossimo “la prima riunione dell’Osservatorio Permanente per il Monitoraggio dell’Attuazione del Piano Ambientale dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto”. Che cos’è? L’ennesima presa per i fondelli! Il 30 gennaio scorso (fonte ANSA) i ministri dello sviluppo economico, dell’ambiente, della salute e della coesione territoriale e del mezzogiorno, avevano comunicato il rigetto “per motivi di merito e di diritto” della proposta di modifica, formulata dalla Regione Puglia e dal Comune di Taranto, del DPCM ambientale approvato dal governo il 29 settembre 2017. Troppi gli interessi in gioco, con il rischio di perdere l’acquirente e di dover affrontare contenziosi legali non indifferenti. Tuttavia nella stessa comunicazione i ministri presentavano un “pacchetto” di nuove proposte per la tutela della salute della popolazione tra le quali, appunto, l’osservatorio convocato a febbraio.

Se avete letto la prima parte dell’articolo, avrete notato come a Genova l’Ilva abbia chiuso la sua produzione a caldo, riconvertendola a freddo, tra il 1998 ed il 2005. Sette anni.

A Taranto si combatte da mezzo secolo! L’Ilva di Taranto, frutto della Cassa del Mezzogiorno, è un altro acclarato esempio della politica coloniale alla quale il sud è soggetto. Non si spiega infatti il motivo per il quale Genova chiude e Taranto no, se non con il fatto che se proprio bisogna produrre acciaio, facciamolo dove ci costa di meno (a Taranto); se non con il fatto che se proprio bisogna morire, facciamolo dove possiamo manovrare meglio i politici in parlamento (a Taranto); e potete aggiungere ciò che volete, ma resta che la politica industriale di un paese coloniale si evidenzia dal fatto che le colonie producono le materie prime e il colonizzatore le lavora e le rivende, lasciando al primo le briciole insieme ai problemi.

E così mentre Genova si riconverte in sette anni, fregandosene della disoccupazione, a Taranto dopo 50 anni, con la scusa di voler preservare i posti di lavoro, si istituisce un osservatorio che sa di presa in giro! Ciò che i politici meridionali invece non osservano, avallando le decisioni di Roma, sono i dati dell’ultimo rapporto del registro tumori (dicembre 2017), i quali sentenziano che in una città di 200 mila abitanti, il 10% (20 mila!) ha a che fare con patologie tumorali al polmone.

Allora ben venga la scelta di protesta di Emiliano di non nominare un rappresentante per la regione Puglia a quell’inutile tavolo, figlio della burocrazia italiana e dei politici traditori che l’hanno votato.

Anche perché, ed è un aspetto ancora più importante della vicenda, l’alternativa c’era e non è stata presa in considerazione. Vi siete chiesti quale motivazione ha spinto verso la scelta di Mittal ai danni di Jindal? È presto detto: soldi! Il gas costa più del carbone.

Ma c’è di più: viene il lecito sospetto che la gara sia stata pilotata in favore di Mittal. All’apertura delle buste, infatti, Jindal offre circa 400 milioni in meno (giustificati dalla riconversione a gas) rispetto a Mittal che quindi si aggiudica la gara per 1.8 miliardi. Il bando, però, prevede che si possa rialzare l’offerta e Jindal vuole farlo; ma dalla cordata improvvisamente si sfila CDP (Cassa Depositi e Prestiti), cioè la partecipazione statale. Quindi, quando si è trattato di proteggere la salute dei propri cittadini, lo stato italiano si è tirato indietro! Intanto l’Ilva inquina con diossina e PM10 una città nella quale la mortalità dei bambini fino a 14 anni è superiore alla media nazionale del 20%! I parchi minerari a cielo aperto fanno sì che quando si alza il vento da un certo quadrante, a Taranto venga dichiarato il coprifuoco: tutti dentro, scuole chiuse e quando la tempesta di PM 10 termina, le strade, i balconi, gli edifici sono tutti neri. Osservi pure, l’osservatorio!

Ma perché se le istituzioni sono al corrente, a differenza di Genova, la fabbrica resta aperta? Siamo sicuri che è esclusivamente  per salvaguardare il lavoro degli operai?

Dal 2010 ad oggi, dieci deroghe alle normative ambientali hanno fatto sì che, in nome dell’occupazione, l’acciaieria continuasse a produrre, sebbene a ritmo ridotto. Nello stesso anno il ministro Prestigiacomo autorizzava l’innalzamento dei livelli di benzopirene nell’aria. Tutto in nome del lavoro? Macché!

I 10 mila lavoratori su 14 mila che a giochi fatti lavoreranno per Mittal, verranno ri-assunti con il Jobs-act, ovvero perderanno diritti acquisiti e salario maturato.

Ma quello che non tutti sanno è che dall’abbandono dei Riva, nella faccenda sono subentrate le banche, in particolare Intesa San Paolo (Torino, neh!), la quale ha coperto i debiti dei Riva per circa 732 milioni. Altri 400 sono andati in questi anni allo stato per far continuare la produzione e le bonifiche e altri 300 per un prestito ponte. Fate voi il totale?

Allora il dubbio che l’Ilva da vendere sia delle banche è più che lecito, mentre è certezza che Mittal, utilizzando il carbone e non dovendo spendere per riconvertire, offriva garanzie finanziarie più solide. Va da sé la scelta dell’acquirente.

Un governo sano ed efficiente, invece, avrebbe approfittato della TAP per riconvertire l’acciaieria al gas facendo arrivare il metanodotto a Brindisi e di lì a Taranto. Avrebbe dettato in prima persona le condizioni per concedere il proprio territorio alle lobbies europee, dimostrando di collaborare senza però cedere ad ogni loro desiderio e soprattutto dando una svolta sostanziale alla qualità di vita di una città che versa in condizioni sanitarie, ambientali e sociali critiche. Taranto ha sicuramente bisogno dell’Ilva e l’Ilva deve restare a Taranto.

Esiste il modo per produrre l’acciaio senza uccidere la gente: tutti ne sono consapevoli! Ma se sono le banche a dettare le regole di scelta anche ad uno stato sovrano, gli interessi che prevalgono non sono gli stessi ed il risultato è sotto gli occhi di tutti.

(leggi la prima parte)

d.A.P.

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