Elezioni 4 marzo - Fonte Ministero dell'Interno
(Fonte immagine: Ministero dell’Interno)

Mercoledì 28 febbraio: giornata storica. Così l’ha definita Luca Zaia presidente della regione Veneto subito dopo la firma, a Palazzo Chigi, dell’accordo preliminare per la cosiddetta autonomia differenziata tra il governo e le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Era, in realtà, il tassello di propaganda elettorale che mancava alla Lega (non più Nord, chissà perché?) a quattro giorni dal voto. Un’operazione cha ha sugellato l’esito del referendum lombardo-veneto di ottobre e che invece ha fatto risparmiare una costosa consultazione all’Emilia Romagna (ormai non più rossa) accodatasi in seguito. L’intesa siglata, conferirebbe (poi vedremo perché il condizionale è d’obbligo) forme e condizioni particolari di autonomia che le Regioni in questione assumerebbero come previsto dall’articolo 116 della Costituzione all’interno delle 20 competenze concorrenti tra Stato e Regioni, (dal commercio con l’estero alla ricerca, all’energia), oltre alle tre competenze esclusive dello Stato, ovvero giustizia di pace, istruzione e tutela dell’ambiente. E anche Liguria, Piemonte e Campania stanno per seguire la stessa strada. La domanda allora è: l’Italia deve essere federalista o no? Ci arriviamo tra un minuto, ma, federalismo o no, quello che i tre governatori sembrano aver dimenticato alla vigilia elettorale è che l’accordo per l’autonomia differenziata, deve essere ratificato con una legge in Parlamento a maggioranza assoluta dei componenti. Altra domanda: ma alla luce dei risultati elettorali del 4 marzo, quale Parlamento e soprattutto quale governo potrà sugellare l’intesa? I numeri delle urne dicono che nessuno degli schieramenti potrà governare da solo e che un accordo alla tedesca si rende assolutamente necessario per evitare nuove consultazioni. Tuttavia non il federalismo, ma una svolta federale è l’unica via d’uscita per il risanamento dell’economia italiana. E per federale intendo autonomia totale per le regioni (o macroregioni) a 360 gradi, anche in merito ai rapporti con la UE.

Sarò certamente tacciato di essere irrealista e tuttavia sfido chiunque a trovare una soluzione differente. Sì, perché, ferme restando le ragioni e le responsabilità storico-economiche dei governi italiani dal 1861 fino a ieri, che hanno contribuito alla profonda depressione del Sud Italia, abbandonare in via definitiva l’attuale ibrido federalista, che esiste solo qui da noi e che nessuno ci invidia, considerando i pessimi risultati ottenuti, aprirebbe un mondo di opportunità a tutto il Meridione dalla Sicilia all’Abbruzzo.

Il primo vantaggio sarebbe l’affrancamento della classe dirigente meridionale dai vincoli e dai tentacoli centralistici di Roma; significherebbe, cioè, non dover attendere il benestare di chi dirige i giochi per vedere attuato un qualsiasi miglioramento che ci riguardi; inoltre i punti deboli del Sud potrebbero diventare, all’interno di una totale autonomia decisionale e in breve tempo, la sua stessa forza. È già successo con l’abolizione della Cassa per il Mezzogiorno: all’indomani, infatti, il Sud, contando sui suoi soli mezzi, conobbe una fase di produzione ed esportazione senza precedenti e potrebbe accadere di nuovo.

Di più: la formazione di una confederazione delle regioni meridionali, attrarrebbe risorse e capitali e lo illustra bene Pino Aprile (in Terroni): “Le ferrovie […] potremmo darle in concessione alle Ferrovie Francesi, fra le prime al mondo, per tot anni con loro e nostro vantaggio. E il ponte sullo stretto? Le maggiori aziende statunitensi […] si erano offerte di farlo, mettendoci i soldi, in cambio della gestione per un congruo periodo; l’Iri fece fallire la cosa e poi prese, con grande calma, in carico l’impresa, per dire, decenni dopo, che non la riteneva prioritaria. Le autostrade? I giapponesi sono bravissimi a farle in zone sismiche: dovremmo solo pagare il pedaggio a loro piuttosto che a Benetton. E poi non dovendo più <<far media>> con il reddito del Nord, diverremmo immediatamente il paese europeo ad avere maggior diritto agli incentivi economici per lo sviluppo; con un impagabile vantaggio aggiuntivo: che i soldi dell’Europa per il Sud, resterebbero al Sud perché Tremonti [o chi per lui – ndr] non potrebbe più usarli come salvadanaio per il Nord”.

Fantasie? Non credo; e se poi si dovesse fallire sarebbe semplice individuare i responsabili: noi!

Ancora Aprile: “Da qualsiasi parte ci si muova, si arriva sempre allo stesso punto: quello dove il filo della storia fu reciso. È lì che bisogna riannodarlo. Persino se, per farlo, si dovesse sciogliere un nodo malfatto, e tornare soli. E dopo? Be’, rimettersi insieme, ma da pari [federazione italiana, la prima idea risorgimentale – ndr]. […] Quello che ci ha insegnato il falso passato consegnatoci dai vincitori non ci è utile in un domani che ci vuole ancora stranieri. E non ci basterà ritrovare memoria e orgoglio, se non accetteremo anche la responsabilità piena della nostra sorte; che nessuno dovrebbe addebitarci, pretendendo pure di governarla”. Un po’ quello che sta accadendo in questo post elezioni: il Sud ha votato esercitando un suo legittimo diritto ed ha scelto liberamente; eppure hanno già etichettato le preferenze al M5S come il voto dei disperati. Chi lo dice, ai microfoni di Radio 24 questa mattina (trovate qui il podcast), è Francesco Merlo giornalista catanese in forza a “La Repubblica”, tipico esempio di ascaro che, pur di ingraziarsi il padrone, si schiera contro la sua stessa gente. Per lui e per tutti gli intellettuali, politici e giornalisti che vivono e lavorano da Roma in su (non importano le loro origini) il voto ai pentastellati è solo il frutto della disperazione e della volubilità di un Sud che non ce la fa più. Infatti il Nord, che invece ancora ce la fa, ha scelto chi ha permesso il suo benessere ai nostri danni. Senza voler esaltare Di Maio & Co. ciò che siffatti individui si ostinano a non voler vedere è che c’è un terzo del paese che ha espresso la sua volontà non a causa del il reddito di cittadinanza (come vogliono farci credere) ma perché quella parte di Italia è sistematicamente defraudata, deturpata e derubata a favore dell’altra, i cui rappresentanti, sciolti dalla coalizione, non arrivano a raccogliere il 20% delle preferenze esercitate attraverso una pasticciata legge elettorale esclusivamente approvata da loro stessi in Parlamento con il preciso intento di rendere ingovernabile il paese.

Il M5S ha vinto al Sud perché il Sud si è ribellato all’egemonia economica e sociale imposta dal Nord; si è ribellato ai luoghi comuni, alla solita politica, ai soliti noti; soprattutto si è ribellato ad una classe politica e dirigente che quel terzo del paese ha sempre penalizzato in favore dell’altra parte. Il Sud è stanco di essere considerato straniero in patria; il Sud è stanco di essere considerato la palla al piede di lor signori savoiardi che tanto si sono prodigati affinché ciò accadesse e poi se ne sono lamentati per un secolo e mezzo; è stanco di essere considerato disperato senza che nessuno si sia mai posto le giuste domande in merito ai motivi di tale presunta disperazione. Il voto del Sud, non è mai stato più consapevole!

È stato preferito chi con forza ha detto basta alla diseguaglianza economica e sociale; chi ha esposto una valida alternativa alla disoccupazione; chi ha espresso una posizione ragionevole rispetto all’immigrazione; chi ha seriamente parlato di abolizione di privilegi economici ai politici e chi ha di fatto restituito 20 milioni di euro agli italiani; in definitiva è stato preferito un uomo del Sud che, almeno in campagna elettorale, ha dimostrato di volerne curare gli interessi, in egual modo a quelli del Nord, e finalmente risollevarne le sorti. Sintomatico di tutto questo è l’immediato tentativo da parte di giornali, radio e televisioni, di denigrare il popolo meridionale facendo circolare la stupidaggine dell’assalto ai CAF pugliesi poi smentita dalla stessa Consulta dei CAF, la quale parla di casi circoscritti e di richieste d’informazioni circa gli «strumenti di integrazione del reddito» ovvero il reddito di dignità, neo-introdotta misura della regione Puglia parallela al reddito di inclusione avviato dallo scorso dicembre dal governo su tutto il territorio nazionale. Capite la distorsione mediatica di questo paese?

Se, quindi, il 4 marzo ha restituito un paese diviso in due, ha anche sancito il “malcontento politico” della maggior parte della popolazione, che guarda caso è al Sud, per un impari trattamento che riceve da un secolo e mezzo. Le due Italie non si sono mai viste tanto nettamente come in questi giorni. Eppure anche se soltanto idealmente, il voto per una volta ha spostato l’ago della bilancia a Sud rendendolo fondamentale per governare il Paese: qualunque governo si formi dovrà tenere obbligatoriamente in considerazione il 32% dei pentastellati che se non ascoltato potrebbe trasformarsi nel 40% e governare da solo. Per una volta il Sud ha idealmente determinato il proprio destino e se ne assume le responsabilità insieme a chi dovrà rappresentarlo; per una volta e finalmente, il Sud pesa di più del resto del paese nell’indirizzarne la politica economica e sociale. Di Maio infatti, se dovesse governare, non potrà prescindere dalle volontà del popolo che lo ha eletto: volontà che vanno ben al di là del reddito di cittadinanza, che a dispetto di ciò che ne pensino Oscar Giannino, Merlo e chi per loro, assistenzialismo non è; volontà che, invece, affondano le proprie motivazioni, tra le altre cose, sul taglio dei vitalizi ai parlamentari, sul rastrellamento di risorse finanziarie da poter investire sul territorio, sulle pari opportunità tanto al Sud quanto al Nord. In definitiva il 4 marzo può essere davvero l’inizio dell’unione o davvero l’inizio della separazione.

d.A.P.

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